Partiamo da un’ovvietà.
Il genere horror non è diventato bello oggi. E nemmeno ieri.
Il genere horror è bello da sempre.
Che si tratti di romanzi, racconti brevi, quadri, fotografie, storie tramandate oralmente, leggende urbane, serie tv, corti o lungometraggi… l’horror è da sempre capace di colpire, turbare, sorprendere anche i più forti fra noi.
Un dipinto di Goya, un assassino nella doccia di Hitchcock, una Baby Jane dagli occhi spiritati, un pagliaccio crudele nato dalla penna di King: l’orrore tocca tutti, tutti possono trovare almeno una storia, un personaggio, una leggenda capace di togliere sonno e tranquillità.
Detto questo, è innegabile che l’ultimo decennio abbia rappresentato un passaggio importante per questo genere, almeno al cinema.
Si può parlare di una vera e propria Horror Renaissance, paragonabile secondo alcuni al momento di grazia che gli appassionati del tema hanno vissuto negli anni ’80: una volta c’erano Nightmare, la Bambola Assassina e Halloween, oggi ci sono Get Out, Midsommar e Hereditary (e Halloween, che non se n’è mai andato davvero).
L’horror è cresciuto, è maturato, passando dagli slasher divertenti e un po’ caciaroni ai film dell’orrore che si basano sul quotidiano, sui drammi che tutti possono vivere: alcune pellicole sono così vicine a noi da essere quasi insopportabili.
La ventata di aria fresca arriva dopo un decennio di apertura degli anni ’00 davvero deludente: remake, reboot, rivisitazioni, l’orrore asiatico che (pur con merito, perché spesso prodotto con grande qualità) invade tutto il mondo, costringendo le major americane a ripiegare su titoloni dal dubbio gusto.
In quegli anni, per la verità, poche cose potevano battere l’orrore della realtà: l’11 settembre, le guerre, le immagini di violenza che scorrevano sui nostri tg spingevano lo spettatore medio a cercare evasione, non certo angoscia.
Ecco allora lo spopolare di queste pellicole piatte, superficiali, dove il “gore” diventa più importante della trama, dove i personaggi sono così scemi da non generare alcun tipo di legame emotivo con il pubblico.
In quegli anni si guardava un film horror solo per vedere in quale modo assurdo il personaggio di turno sarebbe morto, non sicuramente per tifare per lui.
Poi nel 2010 è successo qualcosa.
Gli apripista della rivoluzione sono stati Insidious e Paranormal Activity: due film low budget, nati senza troppe aspettative, che per la prima volta dopo molti anni rimettevano al centro la vita dei protagonisti, catapultandoli in situazioni limite. Semplici, quasi rozzi, hanno travolto i box office, con risultati da blockbuster.
Le major hanno capito quasi subito di dover cambiare musica.
Certo, qualche titolone da inizi ’00 è stato ancora proposto, ma quasi nessuno ha avuto risultati rilevanti, costringendo gli studios a rivolgersi una volta per tutte a registi indie e ad outsiders, sfruttando la loro rinnovata sensibilità verso il genere e verso il pubblico.
Ecco, quindi, Cabin in the Woods, The Conjuring, The Witch, un sequel di Halloween fra i migliori della serie (fatto con un po’ di rispetto per il mito, per lo meno), IT, ma anche serie tv come Bates Motel e Hill House.
Fra tutti, poi, spiccano due nomi: Jordan Peele – regista di Get Out (finito agli Oscar, niente meno) e Us – e Ari Aster – regista di Hereditary e Midsommar.
I due toccano, complessivamente, una quantità impressionante di temi attualissimi: il razzismo, l’elaborazione del lutto, il senso di colpa, la dualità bene/male che caratterizza ciascuno di noi, profondità e apparenza, rapporto fra individuo e società, violenza sulle donne, diversità, ricerca d’identità e accettazione.
Non esattamente i temi tipici dei primi anni 2000…
Insieme ai nuovi linguaggi, però, c’è un enorme bisogno di origini: ecco perché in tantissimi stanno tornando ai capolavori del passato.
Non ai remake, attenzione.
Proprio alle vecchie – e originali – pellicole, rivalutate e riviste con un occhio un po’ nostalgico.
Quanto durerà questo rinascimento?
Non è dato saperlo. La speranza è che sia il preludio di qualcosa di ancora migliore!