Nella giornata del 16 ottobre viene ricordato uno degli episodi più tragici della storia italiana e, in particolare, della storia della nostra capitale: il rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto nel 1943.
La retata coinvolse diverse aree della città, ma si concentrò in particolare nel Rione Sant’Angelo, fra Via del Portico d’Ottavia e le zone adiacenti: il ghetto esisteva lì dalla metà del ‘500 (venne istituito sotto il pontificato di Papa Paolo IV), era stato ampliato nell’800 sotto Papa Leone XII ed era stato privato delle mura nel 1848.
Nel ’43, contava un numero di abitanti compreso fra le 8.000 e le 12.000 persone.
Il rastrellamento del ghetto di Roma: l’antefatto
Roma era stata occupata dai tedeschi il 10 settembre del ’43, controllata e gestita dal tenente colonnello delle SS e capo della Gestapo Herbert Kappler: quest’ultimo era stato istruito molto chiaramente sulle azioni da compiere sul territorio della capitale. In diverse corrispondenze dirette con Himmler, era stato – infatti – incaricato di “risolvere il problema ebraico”, utilizzando azioni a sorpresa e inviando gli ebrei in Germania, dove sarebbero stati “liquidati”.
Kappler, però, scelse un approccio inizialmente diverso, passando attraverso un vero e proprio ricatto. Nella giornata del 26 settembre, infatti, convocò Ugo Foà, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, richiedendo – entro 36 ore – la consegna di 50 Kg d’oro. In cambio, avrebbe concesso l’immunità agli ebrei residenti nel ghetto.
Il 28 settembre la comunità ebraica riuscì a consegnare 50,3 Kg di oro, pesato due volte.
Kappler spedì immediatamente il prezioso carico a Berlino, esprimendo alcune perplessità sulle operazioni e chiedendo di poter impiegare gli ebrei romani come forza lavoro: la risposta fu uno sdegnato no.
A fronte dell’opposizione dei suoi diretti superiori, il tenente colonnello continuò – allora – i suoi interventi violenti all’interno del ghetto, arrivando il 14 ottobre ad approvare il saccheggio di due biblioteche.
In quell’occasione, vennero acquisiti anche gli elenchi completi delle famiglie ebraiche residenti nell’area, organizzati per nome e indirizzo.
16 ottobre 1943: la retata
All’alba di sabato 16 ottobre 1943 (giorno di riposo per gli ebrei, colti alla sprovvista), 365 soldati tedeschi e 14 ufficiali procedettero con il rastrellamento mirato del ghetto, chiudendo le vie di transito e svuotando un isolato alla volta.
All’azione non presero parte italiani – ritenuti poco affidabili – e non venne esploso nemmeno un colpo.
La retata si interruppe solo alle ore 14.00: in totale, vennero selezionate 1259 persone (689 donne, 363 uomini, 207 fra bimbi e bimbe).
I rapporti e le testimonianze sull’operazione evidenziano alcuni dettagli importanti, fra cui, per esempio, la nascita di un bambino fra il 16 e il 17 ottobre e la presenza fra i deportati di una donna cattolica, che si finse ebrea per non lasciare solo un orfano molto malato.
Kappler, nel suo resoconto ufficiale, parla anche della presenza di un italiano in camicia nera, che si sarebbe opposto ai militari tedeschi: negli anni ’90, dopo diverse ricostruzioni, si arrivò a scoprire che il militare romano nominato dal tenente colonnello era probabilmente Ferdinando Natoni.
Natoni, pur appartenendo alla milizia fascista, salvò quella mattina due giovanissime vicine di casa, trascinandole nel suo appartamento: interrogato dai soldati tedeschi, affermò fossero sue figlie, ma venne comunque arrestato.
Si salvò solo grazie alla sua vicinanza al fascismo.
Oggi, Natoni è ricordato come un Giusto fra le Nazioni.
Il 18 ottobre del ’43, 1007 di quelle 1259 persone vennero messe su carri bestiame e inviate ad Auschwitz: in 237 erano stati rilasciati perché meticci o stranieri, mentre al conto venne aggiunta Costanza Calò, che raggiunse spontaneamente il treno per non lasciare il marito e i cinque figli.
Il convoglio raggiunse il campo alle 23 del 22 ottobre: alcuni anziani deportati erano già morti, un giovane – Lazzaro Sonnino – era saltato giù all’altezza di Padova, facendo perdere le sue tracce.
Dei 1007 prigionieri, 820 vennero subito inviati alle camere a gas: alla fine del conflitto, tornarono a Roma in 16, 15 uomini e 1 donna, Settimia Spizzichino.
Il silenzio della Santa Sede e il supporto dei singoli
A quanto risulta dalle testimonianze, la Santa Sede era a conoscenza delle attività tedesche nella capitale, ma scelse un’opposizione molto limitata, preferendo un silenzio che ancora oggi mette in imbarazzo il Vaticano.
Si sa – però – che ci furono dei contatti con le comunità ebraiche e che venne offerto un prestito di lingotti d’oro per raggiungere i 50 Kg richiesti da Kappler.
È impossibile, poi, dimenticare l’attività di alcuni singoli prelati, come Roberto Ronca o Pietro Palazzini, che si adoperarono in prima persona per l’accoglimento clandestino di ebrei in fuga, aprendo anche istituti e catacombe.
Gli aiuti arrivarono anche dalla popolazione civile, che in moltissimi casi aprì le porte delle case per salvare le vite dei propri vicini.